Due anni di lotta al tumore
Le ultime cure individuate.
Facciamo un resoconto delle ultime più importanti scoperte nella cura di questo male tremendo e molto complesso. In tanti nel mondo, collaborando ma anche confrontandosi in una specie di competizione del bene, stanno portando avanti ricerche avanzate, diverse squadre di ricercatori.
Istituzioni, Università, Associazioni, cittadini che aiutano, si coalizzano sempre di più , vediamo le terapie più innovative, che in taluni casi hanno dato risultati eccezionali.
L’ultima battaglia vinta contro il tumore delle donne
Completamente cancellato il cancro al seno, con metastasi, con un terapia immunoterapica. Cellule immunitarie “istruite” dall’uomo e una squadra di ricercatori ottengono ciò che sin’ora era stato impossibile. I Linfociti, o cellule immunitarie, sono stati infiltrati nel tumore (TIL) con un farmaco, dopo essere state estratte da una biopsia e moltiplicate a miliardi.
L’intervento è stato eseguito dall’equipe del professor Steven A. Rosenmberg, del National Institutes of Health, (NIH) di Bethesda, nel Maryland (USA); alla base della procedura ci sono i linfociti infiltranti, i quali hanno spazzato via il carcinoma che aveva aggredito il corpo della 52enne Judy Perkins.
Quando il nostro corpo è attaccato dal tumore, l’organismo, tramite i globuli bianchi si difende, ed è per questo che talvolta vengono trovati leucociti “infiltrati” nei tumori: sono riusciti a riconoscere ed attaccare la neoplasia (seppure con un’efficacia insufficiente), perché vogliono uccidere le cellule malate. Si sapeva che i linfociti infiltranti il tumore fossero un buon segno, sempre associati ai migliori risultati clinici.
Il quadro clinico della donna era già compromesso, per l’aggressività e l’estensione del cancro. Poche o deboli i leucociti, non più in grado di attaccare. I medici avevano provato con tutto, mastectomia, chemioterapia (sette tipologie), terapie ormonali. Così han deciso di tentare l’ultima strada, quella che poi ha confermato importanti scenari nella medicina.
Le cellule immunitarie (i Linfociti T) sono state estratte dalla biopsia su Judy. Con uno screening si è cercato quelle più efficaci contro le proteine espresse dalle proprie cellule tumorali dopo le mutazioni; una mutazione in particolare era stata capace già di distruggere quattro geni nel DNA. Individuate le cellule compatibili le hanno fatte replicare. Oltre 80 miliardi ne sono state selezionate per essere iniettate nel paziente, assieme a una terapia con il farmaco pembrolizumab, che aiuta il sistema immunitario.
Al fianco dei linfociti una forma di immunoterapia, la “T cell checkpoint blockade”, che potenzia l’azione direttamente all’interno dell’organismo, utilizzando farmaci che bloccano selettivamente alcuni dei “ checkpoint immunitari”, molecole che frenano l’azione del sistema immunitario per impedire che esso si scateni anche contro le cellule sane del nostro corpo.
A questi due approcci hanno associato anche una dose di interleuchina 2, usata per facilitare la sopravvivenza dei linfociti selezionati e iniettati nella paziente dai ricercatori.
Nello studio pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica Nature Medicine, c’è la guarigione della donna, cui erano stati dati tre anni di vita, ma ora è libera dalla malattia. Gli scienziati americani hanno utilizzato un approccio definito “adoptive transfer of antitumor lymphocytes”, o “trasferimento adattativo di linfociti infiltranti il tumore”, già una delle terapie cellulari immunoterapiche più studiate.
Estremamente incoraggianti, i risultati dovranno essere replicati, per capire se i linfociti infiltranti il tumore possono essere efficaci anche in altre situazioni.
A quasi due anni dall’intervento, non c’è stata nessuna ricomparsa. La terapia era già nota per tumori con elevata quantità di mutazioni, come il melanoma o il cancro ai polmoni. Una buona notizia soprattutto per le donne, visto che la nuova terapia si è dimostrata efficace per tumori a bassa mutevolezza, come al seno appunto, o alle ovaie.
Una rincorsa di due anni.
Nel 2016, in alcune centinaia di pazienti terminali affetti da leucemia linfoblastica acuta (LLA) si sono avute percentuali di “risposta completa” alla terapia superiori al 90 per cento. Sono numeri che quasi mai è possibile sentire nei trattamenti per i tumori, e quasi mai contro la malattia ormai in fase avanzata. A presentare i progressi era presente anche Chiara Bonini, a capo della Divisione di Ematologia sperimentale al San Raffaele di Milano, che da tempo lavora a questo filone di ricerca.
L’hanno scorso buone notizie sono venute da una terapia sviluppata dal National Cancer Institute insieme a Kite Pharma, che può essere applicata agli adulti affetti da neoplasia maligna del tessuto linfatico e che dopo due cicli di chemioterapia non hanno visto alcun miglioramento. La Food and Drug Administration, ha approvato il rivoluzionario trattamento, di riconfigurazione dei linfociti.
L’Europa da il via al Car-T
A Giugno, dopo il via libera negli Stati Uniti, anche l’Europa (da parte del Chmp, il comitato dell’Ema che si occupa dell’approvazione dei farmaci) approva la prima terapia per due tumori del sangue basata sulla tecnica ‘Car-t’, cioè ‘uso delle cellule del paziente ‘addestrate’ a riconoscere quelle tumorali.
Include due neoplasie aggressive, leucemia linfoblastica acuta (LLA) a cellule B nei pazienti fino ai 25 anni di età e il linfoma diffuso a grandi cellule B (DLBCL) negli adulti, e in entrambi i casi va usata per le forme che non rispondono alle terapie tradizionali.
“Questa terapia offre una speranza di guarigione a un gruppo di pazienti per cui prima non c’era nessuna cura – spiega Franca Fagioli, presidente dell’Associazione Italiana Ematologia e Oncologia Pediatrica -. Per quanto riguarda la leucemia potrebbe funzionare per quel 20% di pazienti su cui i farmaci disponibili non hanno effetto, anche se bisogna ricordare che va somministrata solo in centri altamente specializzati”.
In Europa, ricorda un comunicato di Novartis, che ha messo a punto la terapia, la Lla rappresenta l’80% circa dei casi di leucemia, mentre il Dlbcl è il sottotipo di linfoma non Hodgkin più diffuso. “In Italia si calcola che ogni anno 70-80 pazienti con Lla e circa 700 per l’altra patologia potrebbero beneficiare della terapia, spiega Paolo Corradini, presidente della Società Italiana di Ematologia. Ma la Car-t è la prima terapia cellulare antineoplastica della storia dell’umanità, questa approvazione è la prima di una lunga serie, visto che ci sono sperimentazioni promettenti per molte altre indicazioni”.
Il Bambin Gesù è della partita
Ad Aprile, anche l’Ospedale Pediatrico del Bambin Gesù di Roma aveva annunciato la guarigione di un bambino di 4 anni affetto da leucemia linfoblastica acuta. E’ stato il primo paziente italiano, e nel midollo non sono più presenti cellule leucemiche.
La terapia genica con cellule modificate CAR-T è stata sperimentata per la prima volta con successo nel 2012, negli Stati Uniti, su una bambina di sette anni con leucemia linfoblastica acuta, dai ricercatori dell’Università di Pennsylvania presso il Children’s Hospital di Philadelphia. Da allora sono partite numerose sperimentazioni in tutto il mondo, i cui risultati hanno portato pochi mesi la Food and Drug Administration (FDA), l’agenzia del governo che regolamenta i prodotti immessi nel mercato, ad approvare il primo farmaco a base di CAR-T sviluppato dall’industria farmaceutica.
L’approccio adottato dai ricercatori del Bambino Gesù, guidati dal professor Franco Locatelli, direttore del dipartimento di Onco-Ematologia Pediatrica, Terapia Cellulare e Genica, differisce parzialmente da quello nord-americano. Diversa è la piattaforma virale utilizzata per la trasduzione delle cellule (percorso di modificazione genetica). Diversa è la sequenza genica realizzata (costrutto), che prevede anche l’inserimento della Caspasi 9 Inducibile (iC9), una sorta di gene “suicida” attivabile in caso di eventi avversi, in grado di bloccare l’azione dei linfociti modificati.
È la prima volta che questo sistema, adottato grazie alla collaborazione dell’Ospedale con Bellicum Pharmaceuticals, viene impiegato in una terapia genica a base di CAR-T: una misura ulteriore di sicurezza per fronteggiare i possibili effetti collaterali di queste terapie innovative.
Diversa, infine, è la natura della sperimentazione. L’infusione del primo paziente al Bambino Gesù, infatti, è il frutto di quasi tre anni di lavoro di ricerca pre-clinica all’interno di un trial di tipo accademico, non industriale: uno studio tutto italiano dedicato a quest’approccio di terapia genica, finanziato dall’Associazione Italiana per la Ricerca contro il Cancro (AIRC), dal Ministero della Salute e dalla Regione Lazio.
Il processo di manipolazione genetica e la produzione del costrutto originale realizzato per l’infusione – un vero e proprio farmaco biologico – avvengono interamente all’interno dell’Officina Farmaceutica – Cell Factory del Bambino Gesù a San Paolo, autorizzata per quest’attività specifica dall’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA).
Per il professor Bruno Dallapiccola, direttore scientifico dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, si tratta di «una pietra miliare nel campo della medicina di precisione in ambito onco-ematologico. Le terapie cellulari con cellule geneticamente modificate ci portano nel merito della medicina personalizzata, capace di rispondere con le sue tecniche alle caratteristiche biologiche specifiche dei singoli pazienti e di correggere i difetti molecolari alla base di alcune malattie. È la nuova strategia per debellare malattie per le quali per anni non siamo riusciti a ottenere risultati soddisfacenti (…) ci fa essere fiduciosi di avere a breve risultati analoghi nel campo delle malattie genetiche, come la talassemia, l’atrofia muscolare spinale o la leucodistrofia».
Secondo il professor Locatelli «siamo in una fase ancora preliminare, che ci obbliga ad esprimerci con cautela. A livello internazionale sono già avviate importanti sperimentazioni da parte di industrie farmaceutiche. Ci conforta poter contribuire allo sviluppo di queste terapie anche nel nostro Paese e immaginare di avere a disposizione un’arma in più da adottare a vantaggio di quei pazienti che hanno fallito i trattamenti convenzionali o che per varie ragioni non possono avere accesso ad una procedura trapiantologica».
Milano si fa sentire
A Ottobre, il Professor Mantovani, Direttore dell’Istituto Humanitas di Milano, ha pubblicato una sensazionale scoperta su Nature. Il sistema immunitario può essere paragonato a un’automobile da corsa. Per funzionare al meglio necessita di acceleratori capaci di dare un’ottima partenza, ma anche di freni che le consentono di rallentare, fino a potersi fermare.
Purtroppo molte volte è lo stesso tumore che sfrutta questi freni, bloccando le nostre difese per crescere indisturbato. Il team è riuscito a portare alla luce la possibilità di togliere tali “blocchi”, e il sistema immunitario tornerà a reagire contro il tumore. Parla così della scoperta il dottor Mantovani. I “freni” sono un’intuitiva metafora per far comprendere la funzione del freno dell’immunità IL-1R8.
Scoperto nel lontano 1998 dallo stesso team, oggi assume un’importanza fondamentale per le cure del futuro. Si tratta di un gene dell’immunità identificato con il ruolo di anticancro, in particolare contro tumori e metastasi specialmente nel fegato e polmoni.
Stanato anche “il dopato”
Di novembre invece la notizia (pubblicata su Nature Medicine, e sostenuta dall’Associazione per la Ricerca sul Cancro, Airc) che un gruppo di ricercatori padovani, ha identificato la proteina BRD4, che causa l’iperattività delle cellule tumorali, meccanismo alla base della sua moltiplicazione incontrollata, che diventa dannosa per i tessuti circostanti. Uno stato quasi “dopato” di queste cellule malate, che avrebbero così una forza “sovrumana”, e sfuggendo così al controllo dei globuli bianchi.
Tutto questo non avviene nelle cellule sane. Cosa differenzia quindi una cellula tumorale da una cellula sana è la domanda che attanaglia Stefano Piccolo, docente del Dipartimento di Medicina Molecolare dell’Università di Padova e direttore del programma Biologia dei tessuti e tumorigenesi all’IFOM (Istituto FIRC di Oncologia Molecolare) di Milano ed il suo team di ricercatori.
“Per andare alle radici del cancro – spiega Piccolo – abbiamo dovuto scavare nei meccanismi fondamentali che normalmente fanno funzionare le cellule normali, e da lì fare i confronti, capire cosa c’era di storto, quali interruttori erano saltati e quali erano invece accesi in modo aberrante”
“Purtroppo i farmaci contro BRD4 sono ancora in fase sperimentale negli esseri umani”, avverte Piccolo. Ma gli studi cionondimeno indicano una strada innovativa che combinata ad altri trattamenti, promette importanti sviluppi.
FONTI: La Repubblica – Focus – Leggo – Salute e benessere – Affari Italiani – scienze.fanpage – ilpapaverorossoweb – blastingnews